Orazione Ufficiale 76° anniversario dell’Assalto al carcere giudiziario degli Scalzi

Pubblichiamo qui di seguito il testo integrale dell’Orazione ufficiale tenuta da Dennis Turrin, membro del nostro Comitato di sezione, in occasione del 76° anniversario dell’Assalto al carcere giudiziario degli Scalzi.

«Quando mi è stato chiesto di tenere quest’orazione, sono partito dal pormi alcune domande: che cosa significa oggi, nel 2020, ricordare l’assalto agli Scalzi e più in generale la lotta di Liberazione? Cosa rende questo episodio meritevole di essere ricordato e celebrato a distanza di 76 anni? Cosa, in sostanza, ci porta ad essere qui questo pomeriggio? Ma andiamo con ordine, partiamo dai fatti.

Quello che ricordiamo oggi è senza dubbio il più importante episodio della Resistenza veronese, l’assalto al carcere giudiziario degli Scalzi ad opera dei gappisti Aldo Petacchi, Emilio Moretto, Berto Zampieri, Lorenzo Fava, Vittorio Ugolini e Danilo Preto, compiuto con il fine di liberare Giovanni Roveda che qui era detenuto. Roveda era figura di spicco del sindacalismo italiano, nonché fra i fondatori del Partito Comunista, considerato fra i più pericolosi nemici del fascismo dal regime, che lo condannò dapprima al carcere e poi al confino, da cui riuscì a fuggire nel marzo ’43. Catturato in dicembre a Roma dalla famigerata Banda Koch, fu successivamente tradotto, il 6 gennaio 1944, presso il carcere degli Scalzi, dove venne registrato sotto falsa identità, vista l’importanza della sua figura. Dopo la sua liberazione, avrebbe assunto un ruolo di primo piano nella politica dell’Italia post-bellica, diventando il primo sindaco di Torino liberata, poi Deputato della Costituente e infine Senatore.

La scelta di tentare di liberare Roveda fu presa dai gap veronesi non appena si venne a conoscenza della reale identità del prigioniero Giovanni Esposito, questo il nome con cui era stato registrato, ma la sua liberazione era auspicata anche dal CLN Alta Italia. È in questo contesto che si inserisce un’altra figura cardine di quel giorno, quella di Aldo Petacchi: fino allo scorso anno, quando in questa sede Enzo Menconi ne raccontò la storia, poco o niente si sapeva su di lui, l’unico dei sei gappisti che non risiedeva a Verona, tanto che per decenni fu ricordato come “Petacchio”, e così il suo nome appare anche sui monumenti che celebrano l’episodio. Aldo Petacchi, toscano di origine, era il più esperto dei sei gappisti che liberarono Roveda, ed era anche l’unico che lo avesse mai conosciuto di persona, avendo stretto con lui un legame di amicizia e stima reciproca durante il loro comune confino a Ventotene. Fu anche per questo motivo che accettò con entusiasmo l’ordine di Luigi Longo e Pietro Secchia di recarsi a Verona e di tentare una missione che appariva quasi impossibile.

L’assalto al carcere non fu soltanto l’azione più importante dei gap veronesi, ma fu anche l’ultima: nella sparatoria che ne seguì, tutti i protagonisti ad eccezione di Ugolini e Petacchi riportarono gravi ferite che impedirono loro di proseguire l’attività partigiana; a subire le conseguenze più gravi furono Danilo Preto e Lorenzo Fava, i quali, nascosti dai compagni fra le rovine dei bombardamenti nel quartiere di Porto San Pancrazio, vennero catturati dalla Guardia Nazionale Repubblicana: Preto, il più giovane del gruppo con i suoi 22 anni ancora da compiere, morì poco dopo la cattura. La sorte di Lorenzo Fava fu, se possibile, ancora peggiore ma al contempo ancora più eroica: torturato per settimane e ormai conscio di ciò che lo aspettava, si assunse la colpa di tutte le azioni di sabotaggio compiute dai gap nei mesi precedenti, facendo così liberare i quindici cittadini veronesi che ne erano stati accusati. Venne fucilato il 23 agosto 1944 a Forte San Procolo all’età di 25 anni, ma sarebbero dovuti passare altri undici mesi prima che la sua famiglia e i suoi compagni scoprissero la sua sorte e potessero rendergli omaggio. A Lorenzo Fava e Danilo Preto è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Ci sono alcuni dettagli che mi hanno colpito, rileggendo le pagine di questa storia: piccoli particolari, forse, che credo però sia giusto ricordare. Penso al racconto che Giovanni Roveda fece del momento della fuga, quando Danilo Preto, già gravemente ferito e ormai morente, si preoccupò della salute dello stesso Roveda e affermò di morire contento sapendo che la missione era riuscita e che l’ormai ex prigioniero stava bene; penso a Emilio Moretto e a sua moglie, Concetta Fiorio, a lungo torturata nonostante fosse prossima al parto per estorcerle informazioni riguardo il marito, penso a loro che furono così segnati dagli eventi di quella giornata che vollero chiamare i loro due figli Danilo e Lorenza; penso infine a Forte San Procolo, il luogo in cui Lorenzo Fava trovò la morte e dove, pochi mesi prima di lui, la stessa sorte era toccata ai gerarchi che il 25 luglio del ’43 avevano votato la destituzione di Mussolini, e ci penso perché in quel luogo, oggi, c’è una targa a ricordare la fine di quei gerarchi, mentre nessun monumento è dedicato alla memoria di Lorenzo Fava e dei tanti altri partigiani che lì perirono.

Torno ora alle domande da cui sono partito: cosa ci ha portato qui, oggi? La liberazione di Roveda fu certamente un atto eroico, ma cosa rende questo episodio così importante nella storia di quegli anni e della nostra città, tanto che “l’audace assalto al carcere degli Scalzi” è citato nelle motivazioni con cui la Presidenza della Repubblica insignì Verona della Medaglia d’Oro della Resistenza?

La risposta a questa domanda è legata a doppio filo alla città di Verona e a ciò che rappresentava nel 1944: la posizione geografica di Verona, nelle vicinanze di Salò e al crocevia delle strade dirette al Brennero, ne fece il luogo ideale per stabilirvi il centro del potere nazista nell’Italia occupata. Verona divenne in breve tempo la “Berlino d’Italia”, tanto che proprio qui venne posto l’ufficio della massima autorità operativa tedesca presente nel nostro Paese, il BdS Wilhelm Harster, “Capo della Polizia di sicurezza e del servizio di sicurezza” che agiva in piena autonomia nella lotta contro quello che era definito “il nemico ideologico e razziale”. Gli uffici di Harster e dei suoi sottoposti erano situati nel Palazzo dell’INA in quella che allora si chiamava via Vittorio Emanuele II e che oggi conosciamo come Corso Porta Nuova. A Verona, dunque, aveva sede il cuore dell’apparato repressivo nazista in Italia. Qui venivano prese le decisioni in merito alla “questione ebraica”, qui venivano gestite le deportazioni verso i campi di concentramento e sterminio, qui era il centro di comando della Gestapo in Italia. La sovrapposizione del potere dell’occupante nazista e di quello della Repubblica Sociale strinsero Verona in un soffocante e mortifero abbraccio, rendendola, per usare le parole di Giovanni Dusi, “una città angosciante”, piena di “squadre armate […] che giravano dappertutto” e con una “presenza militare tedesca enorme”, o, utilizzando una famosa definizione di Berto Perotti, “una città di prigioni”. La più importante fra queste prigioni era quella situata in questo palazzo, in cui anche i gerarchi considerati “traditori del fascismo” di cui si è detto in precedenza furono detenuti in attesa della loro esecuzione. Un carcere inespugnabile, dunque, così erano considerati gli Scalzi, tanto che le autorità cittadine si schernirono della richiesta tedesca di deportare Roveda in Germania, assicurando che nessuno era mai fuggito da qui. Ecco dunque una prima risposta alle domande da cui sono partito, ecco perché “l’audace assalto” merita di essere ricordato e celebrato: non solo per il fatto di essere riuscito nel suo intento, non solo per il tributo di sangue che richiese, ma anche e soprattutto per il forte significato militare, politico e simbolico dell’azione del 17 luglio. Non si trattava solamente di liberare un importante prigioniero politico, ma anche di lanciare un messaggio inequivocabile a quelle forze che tenevano in scacco la città: Verona non soccombe sotto il giogo nazifascista, Verona si ribella e lo fa colpendo dove le autorità si sentono più sicure, nella “prigione di stato del regime di Salò”, usando ancora le parole di Perotti; Verona risponde alla tirannia fascista e all’occupazione straniera con l’audacia di pochi coraggiosi, sostenuti però da tanti cittadini veronesi: chi fornì loro i mezzi, i compagni di lotta che li aiutarono nell’organizzazione prima e li nascosero poi, i medici che li curarono e molti altri ancora.

Resta però ancora aperta una domanda più grande, che trascende i confini di Verona e del singolo episodio: perché è ancora importante tenere viva la memoria di questi fatti, a quasi un secolo di distanza? Cosa ci porta a riunirci nelle piazze e nelle manifestazioni il 17 luglio o il 25 aprile? E che valore assume, oggi, tutto ciò? Ognuno di noi ha la propria personale risposta a queste domande, la propria motivazione per essere qui oggi. A me vengono spesso alla mente le parole di due persone legate a doppio filo alla storia della Resistenza; il primo, banalmente, è Piero Calamandrei, e le parole sono quelle della sua citazione più famosa, mi scuso se ne abuso ripetendole ancora una volta: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri in cui furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”. Tenere viva la memoria della Resistenza significa tenere viva la Costituzione che ne è figlia, e tenere viva la Costituzione significa continuare a impegnarsi, individualmente e come comunità, affinché abbiano piena attuazione quegli ideali di libertà, uguaglianza e solidarietà che ne sono alla base e che ancora troppo spesso vediamo venire meno nella società, nei luoghi di lavoro o in mezzo al Mediterraneo.

Le altre parole che mi vengono alla mente, e qui concludo, le ha scritte uno dei protagonisti di questa storia, Lorenzo Fava, pochi giorni prima dell’azione che gli sarebbe costata la vita: “I mali più gravi sono in noi. Se gli uomini in camicia nera presto mancheranno, lo spirito del fascismo perdurerà. Per l’arrivismo, i facili guadagni, l’opportunismo, il timore del rischio e il terrore della morte, l’egoismo e la mancanza di dignità, l’insincerità e la mafia, il protezionismo e il nepotismo. Quando noi avremo abbattuti tutti questi colossali nemici, allora soltanto avremo eliminato lo spirito del fascismo.”

Eccola la risposta.
Ecco perché siamo qui.
Grazie a tutti, e viva la Resistenza!»