Antifascismo, Democrazia, Evento ANPI

Orazione di Beppe Muraro per 76° Anniversario delle battaglie in difesa del Palazzo delle Poste e della Caserma Campofiore.

Discorso del relatore ufficiale Beppe Muraro, membro del Comitato Provinciale ANPI Verona.

COMMEMORAZIONE DIFESA PALAZZO DELLE POSTE

09.09.2019

Potremmo dire che tutto cominciò qui.
Anzi possiamo dire, che tutto cominciò qui.
In questa piazza e alla Caserma Ederle a Campofiore.
Cominciò qui, alla Caserma Ederle e in molte altre piazze e caserme nel resto d’Italia.
In modo tanto spontaneo quanto necessario ci fu chi, tanto in divisa che in abiti civili, quel giorno di 76 anni fa decise di resistere.
Così, quel 9 settembre 1943,
nel momento in cui uno Stato crollava e nel momento di paura più fosco, molti trovarono la forza di reagire e di resistere, trovarono cioè quel “muto bisogno di decenza” che è stato uno dei valori caratterizzanti della Resistenza italiana al nazifascismo.
Non è un caso allora se quello che ricordiamo oggi è stato definito come un tentativo di resistenza civile”, che unì con lo stesso spirito e la stessa voglia di riscatto militari di carriera, colpiti direttamente o indirettamente dalla devastante esperienza della spedizione in Russia, e cittadini di diversa estrazione sociale e fede politica, che dopo il 25 luglio avevano sperato nella fine della guerra e del regime fascista.

Militari come il tenente Vincenzo d’Amore o il colonnello Eugenio Spiazzi che all’indomani dell’armistizio scelsero di resistere all’occupazione nazista non tanto per spirito antifascista, ma per rispetto verso se stessi e per difendere l’onore dell’esercito in cui credevano.

Accanto a loro persone già convintamente antifasciste, come Darno Maffini e Berto Zampieri, e altri cittadini che trovarono, invece, nuova forza non tanto – e non solo – di prendere le armi per combattere il nemico che veniva ad occupare Verona, ma soprattutto di ribellarsi nel nome di ideali che andavano oltre i loro stessi interessi contingenti.

In quelle ore difficili e di fronte ai nazisti, che avevano cominciato l’occupazione militare dell’Italia già all’indomani del 25 luglio, non fuggirono dalla libertà, ma scelsero la lotta per la libertà.
Dopo la breve illusione seguita alla caduta del regime fascista e di fronte all’occupazione nazista decisero di non essere anime spente, ma di vivere per qualcosa, e per quel qualcosa, la dignità e la libertà, disposti anche a morire.
Una scelta etica prima ancora che politica, fatta perché avevano deciso di credere in un’idea generale di democrazia, di giustizia, di libertà e solidarietà.

Aldo Capitini, padre della nonviolenza nel nostro paese e per questo definito il “Gandhi italiano”, che negli anni ’30 proprio per la sua opposizione al fascismo perse il suo impiego all’università Normale di Pisa e mandato al confino, ha scritto:
Noi sentivamo la nostra opposizione al fascismo andare a cercare le sue carte d’appoggio, le sue consolazioni, nelle espressioni più vere del Vangelo, di San Francesco, di Mazzini, di Tolstoj, di Gandhi; sentivamo cioè che al male del fascismo si poteva e si doveva contrapporre un profondo bene, e che questo, prima che politico, era etico-religioso, prima che propagandistico era intimo”.

In quei giorni c’è stato chi ha smesso di lottare e chi, invece, ha continuato fino alla fine, coltivando sia l’arte di arrangiarsi che quella di rischiare, contando anche sull’appoggio e la solidarietà di tanti di cui non si è mai conosciuto il nome e della cui generosità si rischia di perdere anche la memoria, come quei cittadini che abitavano attorno all’attuale caserma Rossani che, nelle stesse ore in cui qui e alla Ederle si stava sparando, con l’aiuto del parroco di SS Trinità, don Eugenio Allegrini, fornirono abiti civili ai genieri fuggiti dall’edificio controllato dai tedeschi dopo essersi calati dalle finestre nel vicolo di accesso alla chiesa.
Furono i primi a rischiare in modo spontaneo perché sentivano nel proprio intimo che era semplicemente giusto fare così.
E nei mesi a seguire altri – anche loro in gran parte rimasti anonimi rispetto alle pagine della storia – continuarono a fare ciò che ritenevano moralmente giusto.
Aiutarono partigiani in armi, nascosero militari alleati feriti o scappati dalla prigionia o giovani che fuggivano dalla chiamata alla leva della Repubblica sociale, o famiglie di ebrei perseguitate dalle leggi razziali e dalle retate dei nazifascisti.
I nomi dei protagonisti di queste storie sono venuti alla luce in tempi recenti, a oltre settant’anni dall’avvenimento dei fatti, a volte solo dopo la loro morte.

Di fronte a episodi come questi e a queste storie, allora, possiamo comprendere meglio le parole incise sul cippo posto dai superstiti della Brigata Avesani a Bocca di Naole, sul Monte Baldo:
in memoria di coloro che caddero per un mondo e una patria migliore, a ricordo di una dura guerra e di una immane tragedia, in riconoscenza agli uomini e alle donne che donarono loro forza ed assistenza”.
Uomini e donne che scelgono in modo autonomo quando, come e contro chi combattere. Salgono in montagna con le brigate partigiane o scelgono di lottare in altro modo, scelgono – come quel 9 settembre – di usare le armi o donare vestiti e nascondere i militari sfuggiti ai nazisti, con lo scopo comune di opporsi in qualche modo alla paura di quei giorni, e porre le basi per un futuro diverso.

Così, quel 9 settembre di 76 anni fa, venuto meno l’ordine costituito, una quota consistente di italiani rifiuta di aspettare qualcosa, di essere inerme, subalterna e servile rispetto all’occupazione tedesca, ma cerca una strada diversa per la propria esistenza e per il proprio futuro.
E quella strada si chiama Resistenza.

Una Resistenza che nel suo svilupparsi, nel suo crescere fino al 25 aprile del 1945, non è stata solo una Guerra di Liberazione, non è stato solo un susseguirsi di episodi tragici e gloriosi – come quelli che ricordiamo oggi anche a dispetto di chi si ostina a negare la storia – ma è stato anche il laboratorio in cui si sono formulate le idee, i princìpi e i tratti fondamentali della nostra Costituzione.

È anche per questo che non dobbiamo perdere la memoria di ciò che è stato.
E se ricordare è un dovere, la memoria deve essere difesa e diffusa.
Lo dobbiamo non solo come debito nei confronti di chi, 76 anni fa trovò quel “muto bisogno di decenza” di cui dicevo prima, al loro esempio e al loro sacrificio, ma lo dobbiamo fare anche per noi.
Per aiutarci a respingere la teorizzazione dell’indifferenza verso quei valori di giustizia, libertà e solidarietà che animarono la Resistenza e furono poi declinati in quello che è ancora il patto fondativo del nostro Paese, ovvero la Costituzione della Repubblica Italiana, e per essere più vigili verso quanto accade attorno a noi.

Ricordare e avere memoria significa anche perpetuare quell’ardore mai estinto, con cui pochi mesi dopo Darno Maffini ricordò sul giornale clandestino Italia Libre, proprio quanto avvenne qui il 9 settembre 1943, quando cominciò di fatto una nuova storia. La nostra storia.