Antifascismo, Democrazia, Evento, Evento ANPI

Forlì Cerimonia per il 75° Anniversario dell’eccidio di Cà Cornio e della fucilazione di partigiani. Discorso del relatore ufficiale Beppe Muraro.

Il 18 agosto, una delegazione del Comitato provinciale ANPI Verona ha reso omaggio alla Banda Corbari nel giorno della commemorazione del’eccidio.
Sperando di fare cosa gradita inviamo il discorso del relatore ufficiale Beppe Muraro, membro del Comitato Provinciale ANPI Verona.

Ricordare è un dovere.

È un impegno necessario, un impegno morale, soprattutto in questi tempi dove c’è chi reclama in modo improvvido “pieni poteri”, in cui assistiamo ad un impunito risorgere delle manifestazioni neofasciste, di chi vuole banalizzare i valori della Resistenza e di chi cerca di delegittimare la storia e le gesta di quanti, tra il 1943 e il 1945, si opposero in vari modi a fascisti e nazisti per ridare all’Italia i suoi beni più preziosi: la libertà e la democrazia.
Per questo oggi ci troviamo qui, per ricordare e ringraziare chi, più di settantacinque anni fa, ebbe il coraggio di lottare per dare al nostro paese un futuro diverso da quello che gli sembrava assegnato.
Come i partigiani del Battaglione Corbari.
Ricordare implica inevitabilmente parlare di nomi, di storie e luoghi.
Di nomi come quelli di Silvio Corbari, Adriano Casadei, Iris Versari e Arturo Spazzoli o quelli di Aldo Celli, Enzo Corti, Dino Ravaglioli, Giuseppe Callegati, Stanislavo Scherl, Felice Poutsek, Nello Bandin, ma potremmo continuare con altre decine e decine di nomi che ognuno di noi conosce e per fortuna ricorda.
E parlare di luoghi come Cà Cornio, di Castrocaro, piazza Saffi a Forlì o il carcere degli Scalzi o Forte San Leonardo a Verona, dove finirono i loro giorni proprio Aldo Celli, Enzo Corti, Dino Ravaglioli e i loro compagni di lotta.
Oggi allora non ci ritroviamo per una celebrazione, ma per ricordare, o se preferite per non dimenticare, parlando di storia o più semplicemente per ricordare ciò che è stato.
Ed è questo il filo rosso della storia che lega queste montagne alla mia città, l’Appennino romagnolo a Verona.
All’indomani dell’8 settembre Verona divenne sede – tra l’altro – del comando supremo della polizia di sicurezza nazista per l’Italia occupata, del comando militare tedesco per il nord Italia, della sede dell’ufficio che sovraintendeva a ogni aspetto della deportazione dall’Italia degli ebrei, di tre tribunali di guerra tedeschi, di vari comandi generali nazisti e di ministeri della cosiddetta Repubblica Sociale. Con i comandi politici e militari arrivarono anche le strutture delle diverse polizie tedesche e italiane, e con queste i loro uomini e le loro carceri.
Verona, così divenne in poco tempo una città di prigioni.
E se Verona era diventata una città di prigioni, in queste prigioni sono passati partigiani e resistenti da tutta Italia e questo da il senso più pieno di cosa sia stata la lotta al nazifascismo dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.
Il loro passaggio da queste prigioni e il loro sacrificio, anche estremo, è invece il filo rosso cge lega quei giorni di lotta al nostro ricordo di oggi.
Da più di 15 anni frequento, studio, parlo di luoghi come questi, come Ca’ Cornio o San Valentino. Un lavoro affascinante perché la Guerra partigiana, a differenza della Prima Guerra Mondiale, non ha lasciato postazioni fisse.
Non ci sono trincee, forti, punti di osservazione da visitare, possiamo trovare, ben che ci vada, qualche cartello, qualche sacrario, qualche cippo, qualche apide come quella che abbiamo inaugurato oggi. Luoghi, spesso uniti in itinerari, veri e propri percorsi della memoria nati anche grazie alla memoria di chi ci ha combattuto su quelle montagne più di 75 anni fa.
È grazie a questi luoghi, a questi itinerari che è nato una sorta di museo diffuso della Guerra di Liberazione e della Resistenza che dall’Abruzzo sale alla Valle d’Aosta e da lì si allarga fino alle Dolomiti e alla Carnia, passando ovviamente anche sulle queste montagne.
Un museo diffuso della memoria che chiunque può affrontare, mettendosi degli scarponi ai piedi, camminando sulla Storia e ripercorrendo idealmente e fisicamente le orme lasciate in quegli anni da centinaia di ragazzi che un giorno per voglia di libertà decisero di salire in montagna.
Farlo è un bel modo non di celebrare, ma di amare chi ha combattuto per la nostra libertà.
Se – come dicevo all’inizio – ricordare è un dovere, non dobbiamo farlo solo un giorno all’anno durante una cerimonia, ma dobbiamo coltivare la memoria tutti i giorni, non tanto per onorare un debito storico, ma soprattutto per aiutarci a respingere la teorizzazione dell’indifferenza verso quei valori di giustizia, libertà e solidarietà che furono poi declinati in quello che è ancora il patto fondativo del nostro Paese, ovvero la Costituzione della Repubblica Italiana, e per essere più vigili verso quanto accade attorno a noi.

Beppe Muraro

18 agosto 2019